SERENATA

Sì, un libro. Un libro tutto per loro. Con il nome e cognome di ciascuno, segnato per sempre, in bella mostra su una carta immacolata, odorosa, di marca Fabriano.
Che inattesa e piacevole dedica, sono queste pagine di cronaca leggera, verso i suonatori in auge al mio paese, lungo il cammino d’oltre cinquant’anni: vissuti accompagnando chissà quante estati e primavere al tempo sinuoso d’un beguine, o a riscaldare, in cuore a certi inverni, all’abbrivio di accese mazurche, l’aria di neve discesa da Montaspro.
Sasà, Michilìnu, Rrìcu, Nnirìa, e tanti ancora. Mastri e artigiani, perlopiù. Tutti insieme, col vincolo di sangue di notti e serenate, quasi a voler legare l’estro del proprio mestiere, l’arti, al regno fantastico dei suoni, e al loro mondo illusorio e trasognato. Per gli altri, viddani e picuràra non c’era tempo per la musica: troppo greve la vita fra quelle terre magre, impietose, sempre essi a dormire assai meno del sole, per essere all’antu già innanzi al suo risveglio. Solo una suonata ogni tanto, per qualcuno, nei meriggi di Agosto, sotto la frescura di una quercia, col fiscaletto fatto nel canneto vicino a San Leonardo…
“Stasera usciamo”. Era il motto segreto, sussurrato da quei Cramer e Segovia di paese. Un cospirare innocente nel retro-stanza del barbiere, tra occhiate di intesa furtiva. Con gli strumenti nascosti dietro scope e canovacci, come fossero armi prima di un delitto.
Un appuntamento, al rintocco delle dodici e tre quarti. Con il lustro di luna, già alta, a vincere il sonno angustiato dei padri. Un girare fulmineo del chiavino nella porta.
E via…

Tum biribìmbli… tumbli, blim blim…
“Và… Serenata celeste…Celeste come gli occhi di una donna…”, iniziava la canzone.
S’inerpicava adagio, il vibrato del violino, lungo i muri, fino al balcone e al pergolato, mentre la luce chiara, scaturita da un lampione leggeva ora l’estasi quieta dei quattro suonatori, con le braccia avvinte alle chitarre, che sembravano fianchi di ninfe uscite da un fiume. Si capiva che ognuno inseguiva un pensiero. Un profumo, uno sguardo, o cos’altro, per sé, da carezzare tra quel nugolo di stelle adamantine, sotto il firmamento d’un passaggio in sol minore…
“Serenata celeste… E nulla più…”, continuava il ritornello.
E il silenzio delle strade, dei vicoli, delle cantunere, percorso dal miele infinito di quei suoni, prendeva a ridestarsi piano, insieme ai sonni della gente, in una dolce lusinga di sirene.
Libri davvero ci vorrebbero, a narrare le gesta o le amene avventure di questi musici nostrani, chansonnieres venuti dal Carmine, trovatori di piazza Mazzini…Con i loro plettri d’avorio e madreperla, sottratti con cura dal risvolto del taschino, prima di un fluente arpeggio sulle corde. E le fisarmoniche, ad adornarli in petto, tra i mantici dischiusi come grandi uccelli variopinti, dal suono quasi umano, in controcanto ai grilli solitari, perduti nelle vigne in un monodico sussurro.
Si vuole ricordarli ad uno ad uno, in questo libro.
I musicanti di allora, innanzitutto; le cui mandole d’amore giacciono ora inermi, in un angolo di stanza, come scudi e alabarde, ormai prive del proprio cavaliere; in attesa d’una redenzione, o che un abbraccio, chissà, possa giungere ad esse da lontano, a via di cielo o di mare, per un’ esile, nostalgica Amapòla
E i suonatori di oggi, infine; ragazzi dalcuore entusiasta cui va il merito d’una tradizione mai sopita, e proprio per questo bisognosa d’esser viva. Necessaria d’altre notti in grembo ai pleniluni, d’altri fiati di trombe in sordina, d’altre alcove di amanti, da spiare dietro agli usci…
Così accada. Fino a quando le pietre rimarranno, al mio paese, a custodire il tempo e le memorie carpite ai nostri padri. E il vento lieve a sera entrerà nei cortili, a far veglia ad antichi racconti d’oltremare.

A.S.
prefazione al libro Sol quattro note,
a cura del Folkstudio di Isnello
da un'idea di Nino Virga, con testi di Pino Di Gesaro,
Isnello, Giugno 1993