| |||||||||
UN SIGNORE PERBENE
A volte una lieve
riluttanza ci prende; ![]() Così, appena girata la chiave dal cruscotto, e messo fuori il naso a respirare la prima fresca boccata dell’aria di casa, da un segno apparentemente flebile, in un istante, qualcosa ci conduce, per una sorte di presentito richiamo, a ciò che non esiste più e non rivedremo mai. Basta assai poco per comprenderlo: una saracinesca che sorprendiamo stranamente chiusa, le luci spente dietro a una finestra, la sedia rimasta vuota di là da una vetrina. Una sedia, per l’appunto. Di quelle di legno, all’antica, con le aste verdi ridipinte, ci riconduce ora, in questo gioco-memoria del nostro pur breve passato, al ricordo del dottore Onorato; ai suoi pomeriggi d’inverno trascorsi, su quella sedia, nella bottega dei tabacchi di Angelino; a vivere e a dividere con i pochi amici di sempre, le storie, le vicende, la cronaca semplice e vera della vita di un paese, narrata tra di essi con lo stile e l’arguzia vera di un giornale di provincia. Parlato, anziché scritto e proprio per questo assai più vivo e pulsante, come una sorta di umano e affettuoso reportage. Era un uomo d’altri tempi il dottore. Un gran signore per bene. E tutti si erano affezionati a lui fin quasi ad adottarlo già dai suoi primi giorni ad Isnello, quand’egli, a bordo della sua giulietta verde, vi era arrivato, fresco della nomina di medico condotto. Non se ne andò più via, da questo nostro nugolo di case distese sopra ad un giaciglio di pietre ineguali, che guardano e ascoltano lo scorrere di un fiume smagrito, ed immaginano il mare al di là dai loro tetti. Divenne egli, il dottore, piuttosto come noi: apprendendo ben presto molte cose del nostro carattere; delle nostre ataviche ritrosie di uomini soli, vissuti per millenni tra lamenti di mandrie e dirupi scoscesi; del nostro innocente pudore di gente nutrita ad acqua e latte, conscia soltanto di queste uniche sole ricchezze, sapute carpire all’avarizia di una greve terra… Era tifoso del Torino. Per una sorta di giovanile, romantico legame con i campioni caduti a Superga, assurti ad eroi, quella tragica notte del quarantanove. “Bagicalupo, Ballarin, Maroso” – evocava egli in certi pomeriggi di domenica, quando riusciva a esser fiero per la vittoriosa partita del suo Toro nel derby. “Loik, Rigamonti, Castigliano” – gli ribatteva Angelino da dietro il bancone, sommerso dai pacchetti Esportazione; entrambi complici e felici, dietro ai loro sorrisi di intese, ammiccati alle spalle del vigile urbano Catanzaro, pallido e smorto, sul marciapiede di fronte, per l’umiliazione subita dalla Juve. Che mala figura! Sarebbe stato meglio non uscire in piazza… Così trascorrevano i giorni. Di buon umore sano, gioviale. Così come lo era il dottore nel temperamento; non avulso, egli, da un senso di innata eleganza nei modi e nel vestire, che soleva mostrare, senza ostentarlo tuttavia, attraverso i fini gessati e i paltò morbidi acquistati a Palermo. Una sera si era tutti da Angelino. Ma sembrava di stare a teatro, tanto erano assorti, i presenti, a godersi le battute di Pino u’ Brizzìsi, il bidello della scuola, che era entrato nel negozio con la scusa dei fiammiferi minerva. Fra il tripudio di tutti, Pino prese e seguitò ad esibirsi nel suo brillante e sterminato repertorio di storie paesane, smàncie e imitazioni, che erano assai più degne – decretammo unanimi - di certi attori ammirati in tivvù! Una voce e il volto eccitato di un uomo, ad un tratto, placò quel clima acceso di allegra brigata. Era un ragazzone sulla trentina, un giovane mezzadro dalla faccia sanguigna, con un giaccone di velluto sulle spalle e il respiro ancora ansante per la corsa. Chiamò in disparte il dottore e lo pregò con un cenno di seguirlo fino a casa, perché sua moglie si apprestava a partorire. Salutarono in fretta, il dottore e l’altro, prima di scomparire entrambi dentro al gelo della sera, scaldati appena da un rossore sbiadito di luna che appariva anch’essa, giocando con le nubi. Andò tutto bene, quella notte. Due gemelli si erano aggiunti al campionario del paese, da sembrare gli angioletti della chiesa del rosario; lì nudi e belli, con la fascia dorata sopra la vergogna … Il giovane padre, alla fine, con gli occhi ancora accesi e pigliati dalla nascita, chiese al dottore quanto gli dovesse per il suo disturbo, avendone immediata risposta che di questo se ne sarebbe riparlato l’indomani. Si alzò tardi, il dottore, il giorno seguente e per prima cosa pensò di andare a trovare la madre e i nuovi nati. Prese ad incamminarsi tra i vicoli, ritmando le movenze della sua valigetta di medico al cadenzare calmo dei passi sopra ai ciottoli sconnessi. Si fermò per una breve sosta alla bottega di don Peppino il sarto, uscendone di lì a poco con un pacchetto di cartone legato ad uno spago; riprendendo poi il suo tragitto in salita verso la parte alta del paese. Il mezzadro stava già ad attenderlo innanzi alla sua casa e avendolo subito scorto, gli fece cenno da presso come per invitarlo ad entrare ed accomodarsi. Ma il dottore rifiutò con garbo e gentilezza, mantenendosi fuori dall’uscio. “Non è necessario visitarli, - gli sorrise, - i bambini e la madre sono una bellezza e stanno bene. Già da stanotte tutto era a posto ! Sono venuto qui, ecco … Accettate questo regalo da parte mia per il loro battesimo”. E aprendogli il pacco tra le mani ne trasse due vestitini di organza rosazzurri, che presero a luccicare nel sole di quel mattino di marzo, come certi fiori presi dalla brina, che tra l’alba e i campi sembrano calici d’argento … Salutò, il dottore, prima di ridiscendere verso la piazza. Gli piacque per un poco indugiarsi sul profumo di una minestra di verdure, che a ventate gli giungeva da una finestra non lontana. Proseguì poi a passo più spedito, sereno, in cuore ai suoi pensieri. Chissà cosa gli stava preparando, sua moglie, per il pranzo. A.S., Isnello, Estate 1993 |