RITORNO D'ARTISTA
(FRANCESCO BAJARDI)


In una calda mattinata d’agosto, esattamente cento anni fa, un treno partito da Roma ben due giorni innanzi, giungeva alla stazione di Campofelice, frangendo con il suo fischio acuto ed i suoi fumi da carbone, l’indaco di un cielo fermo che dalla Torre fino al mare di Aspra già dall’alba si stendeva sopra le coste e le ferle ingiallite.
Dalla vettura di prima classe ne discese un uomo sui trent’anni, con i capelli lunghi ben ravviati tra la fronte e il collo, assai elegante dentro il suo abito di lino chiaro. Ripartito il treno, si mosse, senza fretta, ad attraversare il binario che lo separava dall’uscita. Era, quell’uomo, Francesco Bajardi, il grande pianista di Isnello, e ad attenderlo stava una carrozza per ricondurlo al suo paese.
Egli vi tornava, come ad ogni estate, non già con l’uguale gaiezza di rivedere i suoi cari, la casa, i compagni della scuola, ma con un pensiero di più, questa volta, portato con sé insieme ai bagagli e ai suoi spartiti: il pensiero di un concerto al suo luogo natale, appunto; su invito dei nobili del posto, da tenersi nel loro palazzo.
Una certa ubbia del cuore lo prese, il giorno del debutto, mentr’egli, nella casa ch’era stata di suo padre, radendosi con cura davanti allo specchio, si preparava per l’evento atteso.
Sentì, d’un tratto, pulsare le vene alle tempie, come mille altre volte gli era accaduto nei teatri per il mondo che avevano accolto la sua arte. Si calmò, dopo un poco, , sorridendo quasi a se stesso, quand’ebbe finito di vestirsi con l’abito di gala e la spilla d’oro e di brillanti che la Regina d’Italia, sua allieva, gli aveva donato una sera, a suo ricordo.
Uscì in strada ad un’ora di notte, quando un suono di cicale stanche, lontano, ancora si udiva per l’aria invocare invano il consolo di una luce… Percorse a piedi, il maestro, i pochi metri lungo il corso da casa sua al palazzo e quando vi giunse un lungo applauso l’avvolse, da parte dei presenti, prima che egli si accingesse al pianoforte.
Concluso il primo brano, Bajardi suonò ancora; le musiche dei grandi, dapprima; e poi a seguire anche le sue, ma sempre le une e le altre, a snudarsi nel loro canto di cristallo, appena ombrato, tra i suoi raggi, da un’eco di tristezza… E gli parve, suonando quella sera, di voler come narrare a sé ed agli altri la sua vita: le mute, inesauste ragioni di un amore per il quale aveva scelto, un giorno, di partirsene.
Il riverbero d’un ultimo accordo si spense tra le mani del maestro ed egli, alla fine, fece come per alzarsi e ringraziare; ma solo in quel momento si accorse che quasi nessuno era rimasto ad ascoltarlo. Se ne erano andati, via via, uno per volta, nella stanza vicina a distrarsi e conversare, lasciando quelle sedie vuote come alberi spogli di un autunno silenzioso.
Si terse il sudore Bajardi con un fazzoletto di damasco che aveva tratto dal taschino. Richiuse il coperchio del suo piano e sorrise a qualcuno prima di uscire; ascoltando poi i suoi passi nella notte, nell’inverso tragitto fino a casa

A.S., Settembre 1994