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VIAGGIO A SANTA VENERA (Stidda)
Era nata una notte d'agosto. ![]() Furono contenti, Rosa e lui di quella figlia. Ed anche se femmina presero ad amarla dapprincipio; fino a stupirsi poi un mattino, alla finestra, per quei suoi occhi grandi, più belli di quel lembo di mare verso Tindari, che avevano visto, dal treno, il giorno delle nozze. Tutti la conoscevano, Stidda, al rione Concerìa; quel pugno di vecchie case in grembo al paese che parevano uscire da un presepe , tanto erano esse vicine agli orti odorosi di menta, ai torrenti, alle greggi rinchiuse tra i calcari. La vedevano sempre, in mezzo al giorno, per la via; col vento di fortùra che le andava fra i capelli, uguali a serpi smarrite nel cielo del suo viso. Oppure al tramonto, quando il sole si cangiava in rosa a Madonìa, e lei sugli scaloni smetteva di giocare, pensosa, verso quei colori fermi quasi dentro al tempo. Quei colori nel tramonto, dove ella si perdeva… Stidda ancora non ne sentiva il turbamento, innocente com’era dentro alla sua vestina turchese: ma una vaghezza lieve sì, innanzi ad essi. Un desiderio. Che le veniva da un punto preciso nel cuore. Più dolce di un profumo di zènzero, d’un miele di carruba… Come le accadde quella volta quando sua madre la portò con sé a Santa Venera, ad offrire l’olio nuovo per i frati del convento, chè s’era guarita dalle febbri: e partirono, con il blu dell’alba che diveniva in fretta, come se fingesse tra le luci d’un teatrino. Melo il rigattiere cantava, fumando tra le labbra una cartina di trinciato, contraddanzando il passo tra le ruote e la mula, noncurante di Stidda che ridormiva nel cassone, già paga delle stelle che l’avevano svegliata. Sua madre pensava di lei guardandola: cullandosi anch’essa all’incedere lento del viaggio. E nel pensiero la vide, con lo stesso vestito delle nozze che aveva già preso a ricamarle nelle sere d’inverno. E la immaginò discendere verso la Matrice, carezzando con il velo le pietre del selciato, nel suo sorriso nuovo di donna, ricamato anch’esso dall’occhio del sole. Uno scossone del carro la ridestò d’improvviso, ed ella ne ebbe quasi paura. E comprese d’un tratto tra sé e sé che non doveva sognare all’ingrande di sua figlia, poiché tutto era affidato alla volontà di Dio. Giunsero nel pieno del giorno, scorgendo l’erta del Santuario adagiarsi ancora all’ombra tra le rocce e i pini, mutevoli essi nel vento leggero salito dal mare. Si ravviò i capelli, Stidda, prima di entrare; e si segnò nel petto, copiando in tutto il gesto della madre, che ora diceva in sé le sue preghiere mute, evase appena dalle labbra. Non c’era nessuno. Solo un riverbero lieve di voci dissolte; l’Alma redemptoris mater dei frati che tornavano alle celle. S’annoiava intanto. in quell’ergersi severo di muri imbiancati, interminabili, al soffitto; in quel silenzio quasi di lutto che mai lasciava aprire il cuore ad un suono di fanfara…Quando allora, ad un istante si mosse, da sua madre, fino alla cappella di destra, attratta da un moto ineguale di luci, via via più intenso mentre ella si accostava. Così la vide; tra lo sfavillìo dei ceri uguali a fiaccole intorno alla luna. Sublime. Con il manto pittato di regina e il suo volto di timida madre sperduta tra gli ori e le gemme d’Oriente, candido, come una pasta di zucchero a velo. Stidda la guardava, palpitando nel suo gracile seno di fanciulla, chiedendosi, ignara e felice ad un tempo, di come fosse nata, una immagine così. Quali pensieri o braccia d’uomo l’avessero fatta; quali mille carezze date ad una pietra per cavarne, in ultimo un cenno di sorriso, sottratto al rifugio di chissà quale cuore… Solo più tardi ella si arrese, sedendo stanca tra i gradini dell’altare, docile poi al richiamo, Stidda Stidda, di una voce che ella amava fra tutte, a dirle che s’era fatto il tempo di tornare. Noi non vi raccontiamo ora del tramonto di quel giorno, di quelle trazzere segnate al lustro delle stelle. Vi diciamo soltanto che giunsero tardi in paese, col padre di Stidda sveglio ancora ad attenderli sull’uscio. Si fermarono, e scesero sfiniti dal carro, avvolti in quel fresco odore di legna sparso qua e là nell’aria, tra le case; mentre la mula, stremata anch’essa dalla strada, placida, imperturbabile adempiva ora ai suoi corporei bisogni, scatenando la pazzìa di Melo, che imprecava nel buio parole indicibili, alla mula, a se stesso, a questo pezzo di mondo fott… Ridevano tutti della scena: rideva anche Stidda, nascosta tra i riccioli neri, e pure Melo alla fine sorrise, annuendo poi in un burbero saluto, che era proprio ora di andarsene a dormire. L’eco della notte si posava sopra i muri e le campagne; su Stidda in petto a suo padre, avvinta ad un sogno lieve, che nessuno vide. A.S., Isnello, Estate '97 |